Lettera agli alunni
“Una rondine non fa la primavera”…oggi abbiamo preso la decisione di pubblicare la lettera ai suoi alunni di un professore che va in pensione… anche se è un po’ lunga, è in sintonia con la nostra rivista delle emozioni… Lasciatevi emozionare da un racconto straordinario e sincero!

Cari alunni, come ogni anno è arrivato il momento di salutarci, ma questa volta devo farlo in un modo un po’ diverso dal solito. Dopo tanti anni d’insegnamento è arrivato il momento di lasciare spazio ai giovani, e ho bisogno di dirvi qualcosa di più importante che non sia “ci vediamo a settembre, passate una buona estate”.
Alla solita domanda carica d’affetto che mi fatte tutte le volte quando si avvicina la fine dell’anno scolastico per sapere se sarò ancora io il vostro prof anche l’anno successivo, questa volta dovrò rispondervi, un po’ a malincuore, che quasi sicuramente io non ci sarò, perché a settembre, salvo imprevisti, sarò già in pensione.
I distacchi sono sempre un pochino dolorosi. E anche questo un po’ lo è.
Sembra ieri, ma dal primo giorno che iniziai a insegnare, sono passati ben trentasei anni, una vita, anche se, riflettendoci ora, ho la strana sensazione che questi anni siano volati via in un soffio.
Mi ritrovo a pensare a quando, all’età di ventisei anni, un pischellopoco più grande di voi, appena terminati gli studi universitari, affrontai per la prima volta questo lavoro, dopo aver fatto (prima della laurea) tante altre esperienze lavorative molto diverse fra loro: dall’operaio in cantina, all’analista chimico, il cameriere, il lavapiatti, il bracciante agricolo, l’animatore, il manovale, o qualsiasi altra cosa mi potesse capitare a tiro per racimolare qualche soldo. Insomma, principalmente lavori pesanti, che richiedevano un minimo di training iniziale sotto la severa guida di una persona esperta, una sorta di tutor che ti seguiva passo passo nel tuo operato sino a che, tra un cazzettone e l’altro, non diventavi perfettamente autonomo nel tuo lavoro. Ma ora era diverso: prima supplenza alla scuola media di Gergei, piccolo paesino, all’epoca appartenente alla provincia di Nuoro. Dopo i saluti al Preside e la doverosa presa di servizio in segreteria, mi ritrovai solo ad affrontare (senza nemmeno l’ombra di un tutor che mi spiegasse cosa fare) una sorta di pluriclasse composta da ragazzini mezzo scalmanati. All’epoca l’insegnamento dell’educazione fisica era separato tra maschi e femmine: i professori insegnavano ai maschi, le professoresse alle femmine. Ognuno al suo posto. Vecchie reminescenze educative dell’ormai lontano periodo fascista che ancora, inspiegabilmente, resistevano alle nuove e più evolute teorie pedagogiche tendenti ad abbattere i muri di separazione tra i due sessi. Trenta alunni con l’argento vivo addosso, quasi tutti diavoli e qualche angioletto capitato lì per caso, o forse per errore. Di età molto diverse fra loro: bambini ancora col ciuccio in bocca e ragazzi con tanto di baffi e basettoni da uomo, armati di fionda e pacchetto di sigarette imboscatonelle calze, tutti insieme appassionatamente, e, soprattutto, tutti per me. Pronti a rispondere all’appello apostrofando con qualche battuta in sardo le loro risposte seguite dall’immancabile risatina finale; pronti a combinarne una e pensarne altre cento e soprattutto pronti, anzi, prontissimi ad andare, sotto la mia totale responsabilità, tutti in cricca, a disputare con un pallone di gomma mezzo sgonfio, la “finalissimadi Coppa dei Campioni”, nel lontano campo sportivo situato dall’altra parte del paese. “E sì, professore, prenda coraggio, la scuola non ha nemmeno un cortile, l’unico spazio a disposizione per fare lezione è il campo da calcio comunale, si faccia pure guidare dai ragazzi, loro conoscono bene la strada, non è molto lontano da qui…”. Così mi disse il preside, e così feci. Percorremmo per intero la via principale del paese senza incontrare nemmeno una macchina. Anche le persone in giro per strada erano poche; giusto qualche massaia diretta a fare la spesa e un anziano contadino che, partito di primo mattino a lavorare i campi, a passo lento, zappa in spalla, faceva rientro a casa. Solo un vespino smarmittato, veloce come una freccia, e il rumore assordante del motore di un enorme trattore che, prima di superarci, ruggendo come un leone inferocito e sbuffando fumo nero ci affiancò per una decina di interminabili secondi, riuscirono a interrompere per qualche attimo la rassicurante quiete latinoamericana che regnava nel piccolo paese adagiato sulle dolci e dorate colline della Trexenta, lontano poco più di quaranta minuti di macchina dal resto del mondo. Dopo circa un quarto d’ora di marcia forzata (e meno male che era vicino!), imboccammo una stradina bianca e piuttosto dissestata che puntava verso la campagna e che, a detta degli alunni provvisti di basettoni e baffi, ci avrebbe condotto dritti al campo in meno di cinque minuti se, nel frattempo, non avessimo incontrato un interminabile gregge di pecore che, guidato dal pastore, avanzava minaccioso verso di noi da una stradina laterale, sollevando nell’incedere, tra belati e suoni di campanacci, un’immensa nuvola di polvere che, trasportata dal vento, in un attimo ci avvolse come un mantello sottile, appiccicoso e soffocante. Strizzai subito le ciglia per evitare che la polvere, fine come il borotalco, entrasse dentro agli occhi. Troppo tardi. Per un attimo mi si annebbiò la vista e quando, con difficoltà, a forza di sfregarmi gli occhi, ripresi a vedere, senza neppure avere il tempo di rendermene conto, improvvisamente mi ritrovai con i ragazzi a camminare fianco a fianco alle pecore che, scalpitanti, sganciavano cacche a destra e a manca, richiamando un’infinità di mosche e mosconi. E a poco servirono le urla gutturali, i lanci di pietre, bastoni e maledizioni incomprensibili del pastore contro le povere bestie, per spronarle a cambiare direzione e darci il tempo di spostarci. Le pecore, spaventate ancora di più da quelle urla sovrumane, prima si accalcarono una sull’altra contro una folta siepe di fico d’India e rovi che costeggiava la strada, poi, scacciate dalle acuminate spine del fico d’India, rimbalzarono verso di noi e quasi ci travolsero. Correvano in tutte le direzioni, come se avessero perso il senso dell’orientamento, sembravano impazzite, si mischiarono agli alunni, e io con loro. Insomma, diventammo un unico grande gregge composto da pecore, alunni e giovane professore. Il pastore, palesemente infastidito dall’atteggiamento giocoso degli alunni, felici di ritrovarsi in quella strana situazione, iniziò ad arrabbiarsi, e dalle parole passò subito ai fatti, minacciando con una matzoca (una lunga e nodosa verga di olivastro) la testa di un ragazzo che, immaginando di essere un cowboy impegnato in un rodeo, si era permesso di salire a cavalcioni sopra il dorso di una pecora. Non credevo ai miei occhi, ero dentro a un film. Mi venne in mente l’Odissea, quando Ulisse e i suoi compagni per scappare dalla grotta di Polifemo, dove erano prigionieri, si mischiano alle pecore e riescono a sfuggire alle mani del loro carceriere rimanendo aggrappati all’addome degli animali sino e oltre l’uscita della grotta. Diciamo pure che i personaggi c’erano tutti: io ero Ulisse (scusate la poca modestia), gli alunni erano i compagni di Ulisse, le pecore erano le pecore (c’è poco da fare…), e il pastore, alto, grosso, ricurvo su se stesso, mani giganti, unghie nere, folto monociglio, barba incolta, capelli lunghi e brizzolati e soprattutto sporchi, non poteva che essere Polifemo. Tre cani bianchi di grossa taglia, fedeli custodi del gregge, innervositi dalla nostra presenza, iniziarono ad abbaiare minacciosi, pronti a sbranare chiunque avesse fatto una mossa fuori posto. Non aspettavano che quello. Eravamo nel mese di ottobre e, nonostante fossimo nelle prime ore del mattino, la giornata era abbastanza calda, pensai che oltre a qualche tenero polpaccio dato in pasto ai cani, avremmo potuto rimediare anche qualche brutta puntura di zecca sopravvissuta alle piogge torrenziali di fine settembre, ma Polifemo smise di emettere quegli strani suoni gutturali rivolti alle pecore e, cambiando improvvisamente tono di voce, mi tranquillizzò subito in tal senso, dicendomi che, a suo tempo, aveva fatto sa mexina a tutti gli animali, come gli aveva consigliato il veterinario, e non dovevo assolutamente preoccuparmi di niente. Anche lui era diretto al campetto da calcio che, essendo privo di recinzione, utilizzava da sempre per far pascolare le sue pecore. Le recenti piogge avevano fatto crescere qualche timido ciuffo d’erba e non vedeva l’ora d’arrivare per poter controllare il gregge stando comodamente sdraiato al sole sulla panchina riservata all’allenatore, un vecchio tavolone appoggiato in modo posticcio su due blocchetti di cemento a bordo campo. “Podeus fai a metadi. Metadi ‘e campu a is piciochedus e metadi ‘e campu a is brebeis. Commenti eus fattu s’annu passau cun s’atru professori, anda beni?”, mi disse. “Eja, anda beni, feus aici…”, risposi incredulo, ostentando una certa padronanza della lingua sarda tanto per guadagnarmi un minimo di autorevolezza nei suoi confronti, consapevole del fatto che quella, a dir poco, bizzarra proposta di spartire il campo, metà ai ragazzi e metà alle pecore, più che una domanda era un’affermazione. E chi avrebbe avuto il coraggio di contraddire Polifemo? Non è che potessi rispondere diversamente a un gigante armato di matzoca.
Dopo qualche interminabile minuto di surreale passeggiata all’insegna della più totale e selvaggia promiscuità, dalla fitta nuvola di polvere sollevata dagli zoccoli delle pecore apparve, come in un miraggio, una porta da calcio priva di rete, dove i cardi spinosi, concimati ripetutamente dagli escrementi degli animali, erano cresciuti alti come le colonne di un tempio greco, invadendo gran parte dell’area di rigore. Nonostante il percorso travagliato, grazie alla benevole protezione della “dea Atena”, eravamo arrivati alla meta sani e salvi. Non restava che spartirci il campo: da una parte i ragazzi che giocavano la loro partitella di calcio, dall’altra le pecore al pascolo. Come da contratto.
Così andò l’inizio della mia lunga carriera d’insegnante. Dopo un mese di supplenza a Gergei, passai di ruolo nella scuola media di Sant’Antioco, lo stesso anno fui nominato assistente presso la Cattedra di Ginnastica Educativa all’Istituto Universitario Superiore di Educazione Fisica di Cagliari e iniziai la mia attività di preparatore atletico/personal trainer in una palestra di fitness da me diretta e quella di tecnico federale presso una società sportiva di atletica leggera. A pensarci ora, non riesco ancora a capire come potessi conciliare tutti quegli impegni di lavoro con le altre cose che facevo nell’arco della giornata. Quando si è giovani, tutto diventa possibile se quello che fai è una cosa che ti piace. L’anno successivo vinsi il concorso per insegnare alle scuole superiori e mi trasferii ad Alghero in forza all’Istituto Alberghiero. Dopo una breve tappa al Liceo Scientifico di Isili rientrai in provincia di Cagliari, dove per molti anni ho insegnato in diverse scuole dislocate fra il Campidano, il Sarrabus e la Trexenta, trattenendomi per tanti anni all’Istituto per l’Agricoltura di Senorbì, che ancora ricordo con affetto. Ho conosciuto gran parte degli Istituti Superiori di Cagliari, infine sono arrivato al Liceo Euclide, dove ho trovato un preside che, sin da subito, mi ha dato piena fiducia consentendomi di fare del mio meglio per il buon funzionamento della scuola, nell’ambito sportivo ma non solo. Una scuola dove ho trovato dei colleghi appassionati del loro lavoro, che mi hanno accolto amichevolmente e con tanta voglia di far bene. Una scuola dove ho trovato la disponibilità dei collaboratori scolastici, dei tecnici e di tutto il personale amministrativo, componenti indispensabili per portare avanti l’attività didattica nel migliore dei modi. Infine, una scuola dove ho trovato voi studenti, la cosa più preziosa di questa scuola.
Questo è il quinto anno che insegno al Liceo Euclide e, se fossi stato un alunno, avrei dovuto sostenere l’esame di “maturità”. Che incubo! Di nuovo?! Meno male che vado in pensione!
A voi ragazzi, cinque anni sembrano un’eternità, alla mia età volano in un attimo se vengono vissuti bene e con serenità. E per questo devo ringraziare soprattutto voi, che con educazione, rispetto, capacità di adattamento, voglia di scherzare ed entusiasmo nel fare le cose, mi avete sempre messo in condizione di lavorare serenamente e proficuamente (spero). E anche in questo ultimo periodo segnato da questa triste pandemia, dove per forza di cose ho dovuto dare più spazio agli aspetti teorici della materia, e ci siamo dovuti vedere a distanza attraverso uno schermo freddo più del ghiaccio, avete comunque dimostrato lo stesso impegno, lo stesso interesse per questa splendida disciplina così importante per la vostra crescita personale.
Come vi ho sempre detto, l’educazione fisica è una disciplina in cui la pratica acquista un’importanza fondamentale e ci permette di sperimentare e conoscere delle cose di noi stessi che vanno ben oltre la sfera corporea.
Un amico, quando ancora ero uno studente universitario, mi spedì una cartolina che raffigurava una bellissima pista d’atletica leggera con in sovraimpressione questa scritta: “Si allena il corpo perché l’anima possa vincere”. In quel periodo mi allenavo duramente per preparare una maratona, e quella frase risuonò forte dentro di me, sino a dare un senso molto più profondo a quello che stavo facendo in quel momento della mia vita. Bene, questa frase, a distanza di tanti anni, ora sono io che la regalo a voi e a tutti gli studenti che ho avuto la fortuna d’incontrare.
Avrei un sacco di altre cose belle da dirvi su quanto in questi anni voi mi avete regalato durante l’ora di lezione o nelle visite guidate, nei viaggi d’istruzione, in occasione dei campionati sportivi studenteschi o in occasione della “Notte dei Licei” e nelle tante iniziative culturali organizzate dalla scuola, potrei fare un lunghissimo elenco, ma rischierei di annoiarvi. Posso solo dirvi che, grazie alla vostra energia carica di vitalità, a volte -non lo nego- anche stancante da gestire, mi avete dato sempre nuovi stimoli per capire ancora più a fondo alcuni aspetti della vita. Rimanere in continuo dialogo con voi, le vostre insicurezze, i vostri dubbi, le vostre paure ma anche il vostro coraggio, la vostra forza, la vostra allegria, la vostra simpatica leggerezza e le vostre indiscutibili e assolute certezze (che quando v’impuntate su una cosa palesemente sbagliata, non c’è santo che vi convinca del contrario!), è stata anche un’occasione unica per rimanere in contatto con l’eterno ragazzo che è in me e in ognuno di noi. Perché i vostri dubbi e le vostre certezze in apparente contraddizione fra loro, sono soltanto due aspetti diversi della stessa realtà, e sono gli stessi che a suo tempo ho vissuto anch’io alla vostra età.
– Come non capirvi?! –
La vita a me ha dato tanto, e, a volte, mi ha tolto qualcosa senza restituirmi niente in cambio.
Questo capita a tutti, ma non è questo il caso: stare in contatto con voi, uomini e donne in divenire, per me è stato un vero privilegio, un’occasione per crescere senza invecchiare. Sì, mi avete “obbligato” a non invecchiare, restituendomi, con la vostra energia, vagonate di giovinezza di valore inestimabile.
Da domani, di colpo, avrò trent’anni in più. Ma non illudetevi di incontrarmi ai giardinetti a prendere il sole e parlare, assieme agli altri vecchietti in pensione, degli acciacchi della vecchiaia. Qualcosa mi dovrò inventare. Stavo pensando di partire (zaino e sacco a pelo come ai vecchi tempi) per il Messico, ma potrebbero andar bene anche il Perù, Miami, Cuba, Santo Domingo…
Non sarebbe una cattiva idea. Cosa ne dite?
Ah, già, c’è il COVID!
Che palle! Ma passerà…
Intanto mi godo ancora per qualche giorno i vostri sorrisi.
Spero tanto di esservi stato utile in questo percorso di vita che abbiamo fatto insieme, prima ancora che come insegnante, come persona. Nei miei limiti, ho sempre fatto tutto il possibile per trasmettervi i valori in cui credo, basati soprattutto sul rispetto dell’altro e dell’ambiente in cui viviamo, e voi mi avete sempre generosamente ripagato col vostro affetto e la vostra stima.
Ancora grazie.
Buona vita Ragazzi. Vi voglio bene!
Prof. Picciau
P.S.
Ringrazio i vostri genitori, per l’educazione e i valori umani che vi hanno saputo trasmettere
Francesco Picciau